Nel mondo latino il termine ‘Imago’ rappresenta il calco in cera del volto del defunto, la sua maschera funebre. La funzione svolta dalla maschera sembrerebbe rispondere al bisogno di ‘salvare’, nel naufragio del corpo, il volto, l’identità; di eternizzare l’esistenza, sottraendola alla morte. Il critico cinematografico Bazin avrebbe scritto:” Salvare l’essere mediante l’apparire”.
L’uomo latino, dunque, chiama ‘immagine’ lo strumento che gli permette di fermare l’incedere impietoso del tempo, grazie al dispositivo della rappresentazione, in questo caso rappresentazione del proprio volto. Insomma: qualcosa di me sopravviverà, dunque, anch’io, in qualche modo, continuerò a vivere.
L’attività di produrre immagini, dunque, risponde a un bisogno ancestrale, ben radicato nell’essere umano: produciamo immagini perché un giorno dovremo morire, creiamo rappresentazioni – e cultura, in un certo senso – perché un giorno non potremo più farlo.
Quando Pessoa scrive “Per fortuna esiste l’arte perché la vita, da sola, non basta” afferma qualcosa di simile: l’arte, in effetti, salva la vita, collocandola in quell’altrove dove è possibile, spesso, guardarla, comprenderla, amarla, coglierla. Dove certamente è sottratta al tempo.
Qual è il ‘luogo’ della rappresentazione ? Qual è il luogo simbolico e psicologico della rappresentazione ?
Quando produciamo un’immagine, in effetti, produciamo un ‘doppio’ – rappresentazione come ri-presentazione dello stesso. Il nostro volto, intimo, privato, fragile, singolare, che definisce l’identità, si trova a ‘materializzarsi’ in uno spazio collocato fuori di noi, su una superficie che sta là fuori: lo schermo, l’immagine.
Ecco che risuona la teoria dello ‘stadio dello specchio’ della psicoanalisi lacaniana o, come lo ha ridefinito Serge Tisseron, lo ‘stadio dello schermo’, riadattandolo alla contemporaneità.
Facciamo il punto: l’imago, inizialmente il calco del volto del defunto, diventa un’immagine, l’immagine per eccellenza. Cioè, la funzione cui assolve l’immagine, nella sua sostanza, è quella di salvare la vita collocandola in uo spazio/tempo oltre la vita, per permettergli di durare in eterno. Il paradosso consiste, ovviamente, nel fatto che per collocare la vita in quell’altrove in cui la salvo dalla sua mortalità, la riduco comunque a feticcio museale senza vita, a scimiottamento irrigidito della vita stessa.
Questo spazio – lo specchio, lo schermo – possiede la qualità paradossale di offrire alla nostra vista, finalmente, la nostra immagine, che altrimenti non saremmo stati in grado di vedere. Come a dire: possiamo vedere noi stessi solo attraverso il nostro doppio, lì nello specchio, un doppio che ci rappresenta e, tuttavia, allo stesso tempo, un doppio odioso, poiché possiede la qualità che noi non abbiamo: è eterno. Amore e odio nei confronti di quell’immagine, che la sa sempre più lunga di noi.
Si può, però, affermare una sostanziale differenza tra specchio e schermo. Lo specchio riflette un’immagine, lo fa ‘passivamente’, senza creare distorsioni – che, certamente, può sempre creare e crea lo sguardo di chi si specchia.
Il meccansimo della visione sullo schermo è differente, anzitutto perché l’immagine che si proietta è già stata distorta dal soggetto che la produce. Cioè, la distorsione avviene in una fase più precoce, non più nell’immagine ‘di ritorno’ colta dallo sguardo del soggetto ma direttamente dal soggetto che proietta. E’ un punto fondamentale.
Il corpo che vedo nello specchio ha una sua consistenza che mi viene restituita e che io contesto, distorcendola. Nel meccanismo dello schermo, il corpo non arriva a consistere perché viene ‘strozzato’ nella culla, prima ancora di esistere e presentarsi, per essere trafugato con un altro, immateriale e idealizzato.
Il soggetto nello schermo, quindi, non si trova di fronte a un ‘immagine che contesta e distorce, come nello specchio; non si trova a prendere atto di un corpo che non gli piace, non si confronta con un dato reale. Nello schermo viene proiettato direttamente il corpo idealizzato: questo fonda gli aspetti ‘deliranti’ di certa modalità di funzionamento psichico contemporaneo, che fa uso delle immagini per scrollarsi di dosso la proprio imperfetta umanità: ‘abbandono’ il mio corpo e la mia interiorità per proiettarmi, letteralmente, nell’inconsistenza di un’immagine pubblica gradita.
In questo senso, dunque, lo specchio è certamente più impietoso: ci ridà ciò che c’è.
Lo schermo no. Esso rappresenta un complice perverso: ci restituisce solo ciò che desideriamo.
“Schermo, schermo delle mie brame…”