Spesso, l’opportunità di un percorso di psicoterapia rappresenta l’occasione per diventare consapevoli del nostro dialogo interno. Che significa?
Assumendo come metafora quella del teatro, possiamo affermare, semplificando, che dentro di noi convivono e si esprimono più parti o personaggi, ciascuno dotato, per così dire, di uno stile peculiare e di una motivazione specifica. Queste parti, talvolta, possono corrispondere a emozioni; altre volte coincidono con voci molto critiche o vissuti di colpa e vergogna. Comunque la si veda e rappresenti, accade che queste parti si “parlino” tra loro, dando vita a dinamiche e dialoghi trasversali – un esempio potrebbe essere la situazione in cui sentiamo che una parte di noi vorrebbe conoscere nuove persone mentre un’altra parte, svalutante e critica, continua a dirci che non siamo abbastanza interessanti o competenti per intrattenere conversazioni con gli altri.
Finisce così che, a prendere il sopravvento e, per così dire, a “prendere decisioni” e guidare la nostra esistenza, siano, talvolta, parti disfunzionali, non evolutive, che svolgono un ruolo apparentemente difensivo e protettivo ma che, in modo rigido e pervasivo, tendono a isolarci dagli altri, a non sostenerci autenticamente lungo traiettorie evolutive, non contribuendo a rendere la nostra vita più significativa e gradevole ma, al contrario, rendendola più povera e ripetitiva.
Tenderemo, infatti, a ripetere pattern di comportamento uguali a se stessi anche quando questi non sono necessari, a non assumerci nuove responsabilità, a non lasciarci andare a nuove prospettive, a non concederci di godere di alcuni momenti ed esperienze. E’ un po’ come applicare rigidamente le stesse regole di gioco e pretendere di ricoprire sempre lo stesso ruolo quando lo scenario di gioco, il gioco stesso e i partecipanti sono cambiati: l’inflessibilità che ci caratterizza e conduce fino a questo punto produce sofferenza, disincanto, sfiducia, sino ad assumere le forme del sintomo che si manifesta nei molteplici livelli dell’esistente – sofferenza psicologica, emotiva, fisica.
Dunque la domanda fondamentale, entro una nuova metafora, potrebbe essere: a che genere di Capitano sto affidando le sorti del mio viaggio? Quando prendo decisioni, sono decisioni per il mio benessere, che danno valore a ciò in cui credo? La domanda non è scontata, tantomeno la risposta.
Sulla carta, ovviamente, sceglieremmo un capitano autorevole, un leader capace, vorremmo al comando un capo coraggioso, saggio, amorevole, comprensivo, capace di cura, in grado di prendere decisioni difficili, di mantenere la rotta in acque difficili o in grado di rinunciare a una rotta, se questa diventa distruttiva.
Nella realtà quotidiana spesso non siamo consapevoli di quale parte “prende” per noi decisioni. Salvo renderci conto, in alcuni momenti, spesso con il cosiddetto “senno di poi”, che, al bivio, abbiamo scelto guidati essenzialmente dalla paura, orientati dall’ansia, affaticati dalla preoccupazione, infervorati dalla rabbia, senza prenderne consapevolezza e, quindi, in effetti, senza scegliere nulla.
La domanda, quindi: a chi stai concedendo il comando della tua nave? presuppone che abbiamo un margine di scelta; possiamo, cioè, definire a quale parte affidare il destino di alcune scelte. Questo, ovviamente, non significa che esistano parti sbagliate o emozioni di cui sbarazzarsi: ogni emozione, tratto di personalità, ogni parte dà e ha dato il suo importante contributo per portarci là dove ci troviamo e, un tempo, è stata necessaria.
Semplicemente, ora possiamo dire a queste parti che c’è n’è un’altra, più saggia, capace e compassionevole, che può assumersi l’onere e l’onore di prendere decisioni, continuando ad ascoltare tutte le altre, prendendo da ciascuna contributi e ispirazione ma assumendosi il ruolo del comando, per orientare la rotta verso mete allineate a ciò che riteniamo importante e rendendo il viaggio molto più confortevole.