Consiglio, in via preliminare, di non proseguire la lettura di questo articolo se non se è visto il film, di cui considero una scena finale fondamentale. Parlo qui dell’ultimo film di Sorrentino, E’ STATA LA MANO DI DIO. L’invito esplicito è quindi quello, anzitutto, di guardare il film.
Per inciso, e ovviamente si tratta sempre di una opinione personale, un film molto bello, dove Sorrentino, che sa certamente usare la videocamera, che ha una precisa idea di cinema e un’estetica molto riconoscibile, butta il cuore oltre l’ostacolo, prende le distanze da un certo manierismo estetico e si mostra con sincerità e semplicità.
La sequenza in questione è una delle sequenze finali del film, quando Fabietto, che sta guardando uno spettacolo di teatro, assiste a una improvvisa e debordante interruzione della performance da parte di Capuano, regista napoletano, seduto in sala – esistente, nonché mentore di Sorrentino, nel film interpretato da un attore – che, improvvisamente, si alza e ad alta voce esprime il proprio disappunto nei confronti dell’attrice.
Capuano deciderà di uscire dal teatro, seguito da Fabietto, che lo tallona incredulo e gli fa domande.
Il regista risponde, inizialmente infastidito, poi incuriosito e certamente intenerito da quel giovane adulto che sta cercando risposte.
Capuano prosegue a passo spinto, seguito dal ragazzo, fino a condurlo in quel luogo fuori dal tempo dove Sorrentino gira questa scena potentissima: la Piscina Mirabilis a Bacoli.
Assistiamo a un momento fondamentale: Capuano provoca Fabietto, incalzandolo con domande che desiderano mettere a nudo il ragazzo di fronte alla propria vocazione, al proprio desiderio, alla verità di sé stessi – “La terrai qualche cosa da dire! Dimmela!”.
Il ragazzo è travolto, annaspa, è disorientato dalla semplicità e dalla apparente crudeltà di quella domanda.
E, ad un certo punto, il ragazzo, che nel film faticava per sua stessa ammissione a piangere, urla il dolore di non aver visto i genitori quando sono morti.
A questo punto Capuano dice una cosa fortissima, capitale, un consiglio e un avvertimento che vale una vita: “Non ti disunire, mai”.
Ho saputo solo poi che questa espressione viene anche usata nel gergo calcistico, gridata a bordo campo dall’allenatore che invita la squadra a non sfilacciarsi e a restare compatta nel muoversi. E questo è senz’altro un significato cui allude Capuano. Non ti disunire come non ti disperdere, non andare in frammenti, non abdicare, resta compatto.
Ma poi viene in mente altro significato, simile e complementare. Rimani fedele a te stesso, non ti tradire, non abbandonare il tuo dàimon, ciò che sei, la tua verità, la tua bellezza, il tuo desiderio. Non ti disunire nel senso del non voltare le spalle al tuo peculiare progetto, alla tua singolare vocazione, al tuo destino.
E poi, ecco che si affaccia un significato ulteriore. Non ti disunire nel senso del non separare la meraviglia dal dolore, l’amore dalle sue lotte, la vita dalla morte, la commedia dalla tragedia. In questa scena finale c’è veramente tutto un mondo. In questa ultima, profonda accezione, non ti disunire, significa non separare in te nulla, non giudicare parti di te come indegne, smettila di esiliare i tuoi fallimenti come degli errori. Al contrario, amati come un intero irripetibile, ama i tuoi sbagli che tali non sono perché in quest’ottica sono solo tentativi di vivere, conati di vita. Ama anche la fine, il termine delle cose, non separare schizofrenicamente gli opposti perché non amerai più nulla se non sei in grado di tenerli insieme.
Questa scena diventa allora un inno alla vita così com’è, nel suo provvisorio splendore, nel suo necessario dolore, e non ci resta che vivere, consentendoci di essere coinvolti pienamente con l’esistenza, immersi in quel flusso di cui siamo parte.
Perché, come ci ricorda Fernando Sabino, “di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre incominciando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire”.
E allora, non ti disunire, non perdere il senso della tua vita per la paura di essere diverso. Immergiti nel flusso dell’esistente, con passione, fede e senza risparmiarti e, applicando il principio di Archimede, riceverai una spinta ad elevarti proporzionale a quanto ti sei immerso nelle sue profondità.