Lo spettacolo della vulnerabilità

Viviamo un tempo in cui, a differenza di molte altre generazioni di esseri umani, possiamo permetterci, in modo molto più libero, di condividere le nostre vulnerabilità, cioè quanto di più proprio dell’umano. E’ un bene che, per mentalità e mutate condizioni, siamo stati in grado di costruire gruppi e comunità in cui poter mostrare le proprie fragilità, comportamento che può consentire di approfondire i legami e di crescere individualmente.

Tuttavia, oggi, la vulnerabilità sembra spesso essere condivisa con altro intento e, anzi, viene ostentata con forme e modi che ne ribaltano specularmente il senso. La spettacolarizzazione della vulnerabilità “cura” – apparentemente – la vulnerabilità non perché ne condividiamo il fondo oscuro ma perché né imbellettiamo la superficie per ottenere dei ‘like’ e sguardi. Nel momento stesso in cui poniamo la nostra fragilità sotto i riflettori, la “cura” di quella sofferenza non consiste più nel suo attraversamento ma viene contrabbandata con la sua esibizione. Ci teniamo, cioè, in superficie, sul margine della fragilità: la mia vulnerabilità non viene, quindi, riconosciuta e compresa – da me e dagli altri – ma viene soltanto guardata e applaudita. Ci limitiamo a celebrare il simulacro della vulnerabilità, fermandoci alla sua rappresentazione.

Sui social media la condivisione di aspetti intimi della propria vita diventa una performance, un modo per ottenere approvazione e visibilità, più che una ricerca di connessione e comprensione. In questo contesto, la vulnerabilità perde la sua autenticità e rischia di diventare, in certi casi, una maschera del narcisismo, uno strumento per confermare la propria identità pubblica piuttosto che un’opportunità per costruire legami autentici. Così facendo, però, la vulnerabilità ci impone un moto perpetuo e irrisolto perché, non essendo mai realmente affrontata, non può essere nemmeno accettata e risolta.

La vulnerabilità autentica, quella che permette una connessione reale con l’altro, richiede invece un approccio molto diverso. Essere vulnerabili significa esporsi al rischio di essere feriti, di essere giudicati, di essere rifiutati. Significa, soprattutto, accettare che l’altro possa non rispondere immediatamente ai nostri bisogni o alle nostre aspettative. In una cultura che premia l’immediatezza e la gratificazione istantanea, questo tipo di vulnerabilità è sempre più difficile da sostenere. Il risultato è una forma di vulnerabilità superficiale, esibita evitando il rischio di un incontro autentico con l’altro e scantonando la reale possibilità che quella vulnerabilità sia ascoltata e, per ciò, trasformata.

Questa dinamica ha conseguenze dirette sulla capacità di costruire legami duraturi.

Le relazioni, sia sentimentali che amicali, richiedono tempo, pazienza e la capacità di tollerare l’incertezza. Esse si sviluppano e si rafforzano non attraverso la costante ed esclusiva esibizione delle proprie emozioni ma nella capacità di sostenere le difficoltà, di negoziare i conflitti e di accettare i limiti dell’altro. Tuttavia, la cultura contemporanea, orientata verso il consumismo emotivo, riduce il legame a un rapporto di scambio immediato: se l’altro non soddisfa subito i miei bisogni, o se non rispecchia perfettamente la mia immagine ideale, diventa facilmente sostituibile.

Questa difficoltà a costruire legami stabili si riflette in un senso crescente di solitudine e isolamento, anche in un’epoca apparentemente caratterizzata da un’interconnessione senza precedenti. La spettacolarizzazione della vulnerabilità e l’immediatezza delle relazioni digitali impediscono la costruzione di quei rapporti profondi che richiedono tempo, dedizione e capacità di sopportare la frustrazione e la complessità.

La costruzione di legami autentici richiede inevitabilmente la capacità di confrontarsi con l’altro in modo complesso e articolato. Le relazioni, per crescere e svilupparsi, non possono essere ridotte a un semplice scambio di bisogni o a una continua conferma dell’immagine ideale di sé. Esse richiedono il riconoscimento dell’altro come entità autonoma, con i propri desideri, limiti e contraddizioni. Ma in una cultura che promuove il narcisismo come modello relazionale, questa capacità di vedere e accettare l’altro nella sua interezza viene spesso compromessa, compresa la capacità di accettare se stessi per come si è.

Questa incapacità di confrontarsi con l’altro – e l’alterità, dentro di me – nella sua complessità rende le relazioni sempre più fragili e instabili – anche la relazione con me stesso, dunque. Costruire un legame profondo richiede, dunque, la capacità di tollerare l’incertezza, di accettare che l’altro possa non rispondere immediatamente alle nostre aspettative e di lavorare insieme per superare le difficoltà, raccontando a noi stessi e all’altro chi siamo realmente.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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