Lavoro e ricerca del senso

La ricerca del senso nel lavoro non è un lusso né un’aspirazione idealistica, ma un fattore determinante per la salute mentale. Diversi studi lo confermano: secondo una ricerca del Journal of Occupational Health Psychology, le persone che percepiscono il proprio lavoro come significativo per sé e/o per gli altri riportano livelli più bassi di stress e burnout, indipendentemente dal carico di lavoro. Al contrario, quando il lavoro diventa un’attività percepita come priva di scopo, il rischio di affaticamento mentale e insoddisfazione aumenta sensibilmente.

Ma cosa significa davvero trovare un senso nel proprio lavoro? La domanda è complessa e ha una lunga storia sia nella psicologia che nella filosofia. Se da un lato le neuroscienze e la psicologia del lavoro sottolineano l’importanza di un ambiente sostenibile e di relazioni supportive di qualità, dall’altro le teorie psicodinamiche ci aiutano a comprendere i conflitti inconsci che spesso sottendono il nostro rapporto con il lavoro.

Affaticamento e disconnessione: il costo della mancanza di senso

I dati sull’affaticamento legato al lavoro suggeriscono un problema diffuso. Un’indagine condotta nel 2023 da LinkedIn su un campione di lavoratori italiani ha rilevato che il 42% delle persone si sente cronicamente stressato. Altri studi indicano che l’incapacità di trovare un equilibrio tra vita professionale e personale è tra le principali cause di insoddisfazione lavorativa.

“Solo il 9% degli italiani afferma di stare bene nell’impiego attuale considerando le tre dimensioni del benessere: fisico, psicologico e relazionale. Appena il 5% oggi è “felice” al lavoro. Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano”, come scrive Alessio Foderi, di Linkedin Notizie. E ancora: “Infelicità e malessere portano molti a cambiare lavoro: il 42% degli italiani l’ha fatto recentemente o ha intenzione di farlo a breve e nel 2024 per la prima volta il motivo principale è la ricerca di “benessere fisico e mentale” (36%)”.

In effetti, il punto centrale non è soltanto il tempo dedicato al lavoro, ma la qualità dell’esperienza lavorativa. La Teoria delle richieste di lavoro-risorse sottolinea come non sia solo il carico di lavoro a diminuire il benessere, ma anche l’impossibilità di sentirsi coinvolti e di percepire il proprio contributo come significativo.

A livello più profondo, uno sguardo psicodinamico ci suggerisce indirettamente che il lavoro non è mai solo un’attività strumentale, ma tocca i livelli più intimi dell’identità. Secondo Donald Winnicott – psicoanalista la cui riflessione clinica non è direttamente implicata rispetto al contesto lavorativo – fornisce comunque uno spunto interessante: il senso di vitalità e autenticità di una persona dipende dalla possibilità di esprimere se stessa nel mondo. Se il lavoro viene vissuto come un’attività impostata, che non rispecchia i bisogni profondi del soggetto, può generare una sorta di alienazione interiore, un distacco dall’esperienza autentica di sé.

Byung-Chul Han, filosofo contemporaneo, d’altra parte, descrive la società attuale come dominata da una logica della “prestazione”, in cui il soggetto non è più vincolato a regole esterne, ma si auto-sfrutta in nome dell’efficienza e della produttività. Questo porta a una forma di esaurimento psichico in cui il confine tra lavoro e vita si dissolve, e il senso profondo di ciò che si fa si perde in un’incessante (iper)attività priva di direzione e connotata, sul fondo, da una forte fatica depressiva.

È chiaro, quindi – ma non è questa la sede né l’intenzione di questo breve scritto –, che dietro la sofferenza personale si cela pur sempre una certa cultura del proprio gruppo di appartenenza, della società in cui si vive e della comunità in cui si opera, capace di impattare sulla salute individuale – ed è il caso esplicitato da alcune riflessioni sul lavoro contemporaneo, che sembra essere sempre più ispirato a principi di prestazione, come si diceva, che implicano troppo spesso il disconoscimento di alcuni bisogni esistenziali fondamentali, come l’ascolto e la valorizzazione di sé e la presenza di legami di tipo cooperativo e di cura con gli altri.

Da qualche tempo tra gli esperti circola un’espressione che rappresenta un obiettivo  e indica una direzione più evolutiva e coerente per le aziende, che riconfigura un nuovo orizzonte di senso legato al lavoro e all’economia: “economia del significato” (“purpose economy”), definibile come approccio entro il quale «emergono nuove dimensioni di creazione di valore che esulano dal pensare in termini di crescita e massimizzazione del profitto: valore aggiunto sociale, sostenibilità, soddisfazione del personale, progresso sociale» (Zukunftsinstitut).

Le risorse personali per ritrovare l’equilibrio

In un contesto di alta pressione, comunque, cosa può fare una persona per ritrovare un baricentro? Alcuni studi di psicologia del lavoro, affiancati dai contributi delle neuroscienze, suggeriscono strategie che hanno un impatto significativo sulla qualità della vita:

  • Ancorarsi a una rete di relazioni significative . Il nostro sistema nervoso è regolato in larga parte dalle interazioni sociali (social engagement system), come evidenziato dalla teoria polivagale di Stephen Porges. Avere momenti di connessione autentica – anche durante la giornata lavorativa – può ridurre la percezione di stress e aumentare il senso di sicurezza. Questo è particolarmente importante in un contesto lavorativo, dove il senso di appartenenza a una comunità e la qualità delle relazioni con i colleghi influenzano direttamente la percezione di benessere.
  • Riconoscere il valore del proprio contributo. Alcuni studi mostrano che le persone che riescono a collegare il proprio lavoro a un obiettivo più ampio – che sia l’impatto sociale, il miglioramento di un processo o la crescita personale – tendono a sperimentare meno esaurimento emotivo. Spesso questo passa attraverso una riformulazione interna: chiedersi “perché lo sto facendo?” può modificare la percezione dello sforzo. Da un punto di vista psicodinamico, possiamo dire che il lavoro assume significato quando permette un’espressione del Sé coerente con la propria storia e i propri desideri profondi.
  • Integrare momenti di pausa consapevole. I ricercatori nel campo della regolazione dello stress suggeriscono che il recupero psicologico non avviene solo nel tempo libero, ma anche all’interno della giornata lavorativa. Brevi pause che coinvolgono il movimento, l’attenzione al respiro o il contatto con elementi naturali migliorano la regolazione del sistema nervoso. In termini neuroscientifici, questo significa attivare il sistema parasimpatico ventro-vagale, contrastando la risposta iperattiva dello stress cronico.

Il rischio della disconnessione dal significato

Quando il senso viene meno, il lavoro tende a diventare solo un obbligo. Secondo Viktor Frankl, psicologo e neurologo, “l’uomo non è distrutto dalla sofferenza, ma dalla sofferenza senza significato”. Questa idea trova riscontro anche nella ricerca contemporanea: uno studio del 2022 pubblicato su Work & Stress ha mostrato che le persone con un forte senso di scopo nel lavoro hanno una maggiore resilienza di fronte alle difficoltà quotidiane, mentre chi percepisce il proprio ruolo come vuoto è più incline a sintomi depressivi e ansia.

Ancora Byung-Chul Han descrive un fenomeno correlato con il concetto di “vita senza rituali”: nella società contemporanea, la perdita di momenti rituali e collettivi, di pausa e di connessione con un senso più ampio della propria esistenza, porta a una condizione di alienazione e di logoramento. Il lavoro, quando privo di un orizzonte di senso, diventa una ripetizione senza scopo, una fatica che non si traduce in crescita o trasformazione. Se il lavoro non offre alcuna possibilità di rispecchiamento e di valore, la persona può sperimentare un profondo senso di vuoto e di smarrimento.

A questo punto, però, un chiarimento è d’obbligo. È ovvio che il nostro primo compito è valutare se esistono condizioni e approcci alternativi, o quantomeno diversi, per vivere meglio la realtà professionale in cui ci si trova a operare, riaggiornando approcci, risorse, relazioni, competenze e punti di vista.

Tuttavia, esistono anche momenti in cui potrebbe essere importante riconoscere che alcune delle attività lavorative che abbiamo scelto e in cui siamo coinvolti potrebbero avere esaurito il loro senso o potremmo semplicemente aver preso consapevolezza di nuovi bisogni o ancora, imparando a dare valore a ciò che sentiamo, aver riconosciuto che nel luogo in cui ci troviamo il significato di ciò che facciamo è estremamente ridotto o alcune dinamiche relazionali  potrebbero essere diventate a tal punto difficili da provocare una importante sofferenza. In questi casi non c’è più tanto in gioco un riadattamento creativo al proprio contesto professionale quanto il bisogno di esplorare alternative e assecondare, con gli opportuni aiuti e supporti, anche da parte di uno specialista, il dato emergente di una radicale insoddisfazione e mancanza di senso personale,  che, come in ogni crisi, può guidarci verso altri approdi e mete professionali.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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