Negli ultimi tempi si sente parlare spesso di dipendenza affettiva. Si tratta di una definizione piuttosto recente di una serie di comportamenti e vissuti emotivi trasversali a diversi quadri di sofferenza. Non è facile definirne i contorni e ovviamente non si tratta di una patologia vera e propria, ragione per cui non è chiaramente definibile attraverso una serie di sintomi circoscritti. Semmai, rappresenta un quadro di funzionamento presente in più forme di malessere, i cui presupposti, modalità e origini sono da indagare. Certamente, la dipendenza affettiva rappresenta un vissuto che mina alla base della personalità la stima e il valore attribuito a sé e le proprie relazioni interpersonali.
Scendendo più nello specifico, possiamo definire la dipendenza affettiva come una condizione psicologica in cui una persona sviluppa un pervasivo bisogno dell’altro, facendo dipendere il proprio valore personale dall’affetto dimostrato dall’altro, dalle sue conferme e dalla sua approvazione.
Da ciò discende la necessità, mantenuta con costi individuali ed emotivi spesso importanti, di essere in relazione, fino a sacrificare i propri bisogni e ciò che è importante per sé, temendo l’abbandono da parte dell’altro e quindi anteponendo al proprio benessere emotivo il mantenimento del legame.
In queste situazioni cioè, pur riconoscendo la persona di trovarsi in una relazione disfunzionale che provoca sofferenza, una relazione non evolutiva che non sostiene il pieno sviluppo di sé, l’individuo preferisce mantenere il legame poiché questo gli dà la sensazione di avere consistenza e scopo, evitando quella percezione di vuoto esistenziale e mancanza di senso che l’assenza dell’altro indurrebbe a sentire.
Questa condizione psicologica complessa ha ovviamente origini multifattoriali: la tendenza a inibire i propri bisogni, a compiacere l’altro e ad adattarsi ai suoi bisogni, ponendosi sempre in secondo piano, può infatti dipendere dalle caratteristiche dell’accudimento e della cura ricevuti da piccoli, laddove il bambino può avere può aver vissuto esperienze di svalutazione, dinamiche disfunzionali e disorganizzanti e/o vere e proprie esperienze traumatiche.
Un bambino che durante la propria infanzia non sia cresciuto in un ambiente genitoriale sufficientemente supportivo, presente, convalidante ed equilibrato, può essere portato molto presto a inibire la propria naturale tendenza a espandersi, sperimentare, giocare, gioire, sentendosi capace, forte e amato, poiché ha ricevuto segnali da parte del caregiver che, se questi legittimi e naturali comportamenti fossero stati messi in atto, il caregiver avrebbe potuto avere reazioni di rabbia o di tristezza. In presenza di queste risposte, il bambino può interpretarle come segnali di una possibile rottura del legame che, ovviamente, il bambino, per la sua immaturità fisiologica, deve scongiuare.
Spesso un percorso di psicoterapia può aiutare la persona a ricostruire, talvolta ex-novo, delle modalità di valorizzazione di sé e di cura delle proprie esigenze e dei propri bisogni, imparando in qualche modo a “diventare il genitore che non ha avuto” durante l’infanzia e imparando che, in un legame equilibrato e autentico, non è mai necessario inibire l’espressione di alcune emozioni – ovviamente quando queste vengano espresse nel rispetto dell’altro, entro modalità di dialogo, che rappresenta la condizione e la via principale per la crescita evolutiva di qualsiasi rapporto.
Con un lavoro personale e il supporto appropriato a queste risorse e qualità che nella persona sono state inibite, è possibile incominciare a condurre una vita più sana e soddisfacente, riconoscendo il proprio valore e imparando a stabilire relazioni basate sulla reciprocità e la crescita personale piuttosto che sulla dipendenza emotiva e il sacrificio di sé.