Come Psicoterapeuta, lo scopo che mi prefiggo per i miei pazienti è che stiano meglio.
Questo, talvolta, significa lavorare insieme su aree e problematiche più circoscritte, spesso già nella ‘domanda’ del paziente. Succede poi che il paziente, spesso, se se la sente, lo desidera e lo tollera, comprenda che sia necessario allargare e approfondire l’orizzonte della ricerca e dell’esplorazione. In altre situazioni, in effetti più rare, la persona è già orientata a un percorso di ricerca della propria verità, di qualcosa di sopito di cui è portatore, da cui originariamente ha deviato, per desiderare riacciuffarsi un po’, riprendere una strada abbandonata, con tutti gli aggiornamenti e accorgimenti del caso.
Il punto è che mi resta una spina nel fianco e, sempre più spesso, ho la sensazione di ricucire insieme, ogni volta, una tela che si disfa di notte, e non è il paziente a disfare.
Credo nel potenziale e nel potere che la cultura – del proprio gruppo e comunità – detenga nella risoluzione ma anche nell’induzione e nel mantenimento del sintomo e della sofferenza. Detto diversamente, penso che un quadro di sofferenza che chiamiamo disturbo dell’adattamento possa diventare, in senso più lato e non strettamente nosografico, una culture bound syndrome attuale, cioè un disturbo etnico della nostra epoca e non limitarsi a definire un quadro di sintomi del migrante. Ci ammaliamo, quindi, anche noi, sempre di più, per disadattamento e perdita del senso, per crisi della presenza, come direbbe De Martino, senza fare un passo. C’è qualcosa dell’umano, nell’umano, che è in sofferenza perché travolto da alcuni caratteri tipici di quest’epoca per la quale ciò che è umano è d’impiccio. In questo senso, le macchine hanno già vinto.
Sento una fatica depressiva e un bisogno di senso nei pazienti che mi sconcerta. Loro ed io, una volta a settimana, in fondo, facciamo quello che possiamo. Ma basta così, in un contesto entro il quale i pazienti fanno ritorno, contesto e cultura rappresentati dalla spinta alla produzione incessante di prestazioni? E’ sufficiente pensare che il nostro lavoro clinico possa limitarsi ad accogliere e affrontare la sofferenza nel solo setting della cura?
A fronte di enormi passi in avanti nella consapevolezza di chi siamo e di cosa abbiamo bisogno, certa psicoterapia che si sta imponendo, soprattutto nei contesti istituzionali, sembra perseguire lo scopo – pur nel tentativo di alleviare la sofferenza – di depoliticizzare il sintomo, riducendolo a disturbo del corpo e della mente, senza badare al fatto che un’anima deturpata si ammala in un contesto e se il contesto resta tale diventa difficile prendersene cura.
Depoliticizzare il sintomo significa, in fondo, zittirne la voce, ridicolizzandone la saggezza e non ascoltandone la verità; la verità, questa misconosciuta. Dire la verità, dirsi la verità, cercare la verità, accettare la verità, amare la verità. Perché abbiamo abbandonato questo sentiero?
La verità del sintomo riguarda – non solo – i contesti, gli orizzonti, le gabbie entro cui si struttura la sofferenza.
Chiunque si occupi di salute mentale, anzi di salute tout court – la salute è una, è del sistema, non del singolo organo in un corpo malato – dovrebbe comprendere – e in tanti, silenziosamente, lo stanno capendo – che medicalizzare e psicologizzare il sintomo depriva l’individuo della reale possibilità di accedere a una piena consapevolezza e cura di sé, sprofondando nella colpa di non farcela perché unico responsabile del proprio disagio.
Certamente questo discorso apre un difficile scenario e impone un ripensamento radicale della cura. Ma non possiamo curare le persone se non abbiamo cura dei contesti e della cultura in cui la sofferenza prende corpo e si struttura. Ricordo qui che l’espressione culture bound syndrome, cara all’etnopsichiatria, significa sindrome ordinata dalla cultura.
Questo, credo – mi dispiace – sia il rimosso di molte parole e riflessioni nei numerosi dibattiti sull’adolescenza contemporanea. In cronaca, ormai, leggiamo, fin troppo spesso, della crisi degli adolescenti e degli atti efferati e senza senso che compiono. Ci spetta, ovviamente, di invitare le famiglie a parlare. Ci spetta, come clinici, di domandarci il senso e di prenderci cura del disagio con gli strumenti che abbiamo. Ma bastano le famiglie, i terapeuti e la scuola, se poi esempi di adulti, la politica, i media, testimoniano un assoluto disprezzo del limite e del rispetto per la verità, l’intelligenza e la vita? Io credo di no.
Ci si ammala e si soffre per molti motivi. Ma ci si ammala anche perché non ce la si fa più, non si regge il ritmo, la competizione, l’odio, l’incompetenza, la faciloneria.
Avere cura di ciò che diciamo, scriviamo, testimoniamo, incarniamo è la strada per creare una cultura della cura, una cultura fatta di cura di sé e degli altri, una democrazia fondata sulla vulnerabilità. Siamo agli sgoccioli, sulla soglia di un epoca in cui l’irreparabile, se non sarà evitato, dovrà compiersi, scavando un vuoto che richiederà tempo, risorse e sacrifici inimmaginabili.
Se la psicoterapia continuerà a fare a meno del politico, rinunciando ad esprimersi e agire nello spazio politico per chiedere un cambio di rotta, di pensare politicamente nella clinica, allora il politico farà a meno della clinica e questa si trasformerà definitivamente in un sapere ortopedico, funzionale a riparare e produrre persone (in)felici.
AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano
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