Un elenco esauriente dei bisogni umani potrebbe essere inquieto, lungo e sostanzioso. Vorrei qui dire due cose sul bisogno di credere. La psicoanalista Julia Kristeva definisce il bisogno di credere come pre-religioso e pre-politico. Esso sembra corrispondere al bisogno, tutto umano, di dare significato alle cose, alla fame di senso che ci afferra e guida i nostri incerti passi.
Dunque, uno tra i bisogni fondamentali dell’uomo – tale per cui l’essere umano può essere definito a partire da esso, a distinguerlo da qualsiasi altro essere vivente – è quello di dare un senso – provvisorio, certo -, all’esistenza, articolandosi nel tentativo di mettere in ordine, di organizzare il visibile e l’esperienza, di strappare dal disordine e far emergere dal caos una trama di riferimenti che rendano tollerabile e gestibile il peso angosciante della mancanza di senso, che spesso rasentiamo in alcuni momenti di vita.
E quando ‘crediamo’, questo atto di fede si fonda e articola in una narrazione. Il racconto che facciamo della realtà – a volte rigido, inflessibile, stabile, altre volte liquido, cangiante e misterioso – risponde proprio al desiderio di costruire una rappresentazione che dia forma al reale e, allo stesso tempo, ci protegga.
E allora crediamo per aprirci a una salvezza rappresentata dal sollievo di una narrazione entro la quale inscriviamo le nostre quotidiane vicende, racconto che restituisca almeno il conforto di una logica, anche se, talvolta, instabile. Il bisogno di credere, dunque, è sempre, anzitutto, credere in una narrazione, cioè in un racconto complesso, in cosmogonie e mitologie che consentano di guardare alle esperienze della vita intrecciandole in un insieme inquieto e mobile ma dotato di senso.
In questo momento storico, mi sembra di intercettare spesso, nella sofferenza delle persone che incontro, il malessere che sorge dalla mancanza di senso, dal tradimento del bisogno di credere e di costruire una narrazione coerente coi propri valori personali. Si potrebbe azzardare, in termini etnopsichiatrici, che la mancanza di senso e le forme sintomatiche e di sofferenza che questa genera potrebbero rappresentare una sorta di culture bound syndrome del nostro Occidente.
Penso che il bisogno di credere porti naturalmente a porre la questione in termini spirituali ma non necessariamente religiosi. Vale a dire che il bisogno di credere non corrisponderebbe al bisogno di un Dio qualsiasi ma al bisogno di dare un significato che trascenda l’orizzonte delle cose, della materia, delle routines, del dovere da svolgere come del piacere da soddisfare, un significato che si cela e diffonde in un altrove che si sente il bisogno di intravedere. Se le cose sono solo cose, se il lavoro è solo lavoro, se tutto si riduce a espletamento di funzioni non c’è più differenza tra un essere umano e una puleggia di un ingranaggio.
Dobbiamo poter costruire relazioni e società, gruppi e comunità in cui sia consentita, autorizzata, sostenuta la ricerca del significato, il bisogno di credere, di trovare una ragione di vita, possibilmente la propria ragione e non quella di qualcun altro. Abbiamo bisogno, così mi pare sempre più spesso, di riconnetterci a questo bisogno e di provare a rispondere a questa domanda di senso personale, tentativo che, in definitiva, corrisponde all’impresa e al mestiere stesso di vivere degnamente la propria vita.