L’identità di genere è un aspetto fondamentale della nostra esistenza, un elemento che definisce chi siamo al di là di come altri ci vedono. Ma cosa significa davvero parlare di identità di genere, e perché è così importante affrontare queste tematiche, specialmente nel contesto LGBTQ+?
Quando parliamo di identità di genere, ci riferiamo al senso interno e profondo di appartenenza a un genere. Questo può coincidere o meno con il sesso assegnato alla nascita. È un concetto che va ben oltre il concetto binario maschio-femmina, includendo una vasta gamma di esperienze umane: persone che si identificano come transgender, non binarie, genderqueer o genderfluid, tra le altre.
L’identità di genere è un’esperienza profondamente personale, che può emergere in modi e tempi diversi per ciascuno di noi. È importante sottolineare che non è una scelta: non si decide di essere un certo genere, ma si scopre e si vive come tale.
Le persone LGBTQ+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer e altre identità non conformi alle norme eterosessuali e cisgender) affrontano spesso sfide uniche e complesse sotto il profilo psichico, nel difficile itinerario di ricerca, scoperta ed espressione della propria identità di genere e orientamento sessuale. I vissuti e le esperienze possono includere la paura del rifiuto, la discriminazione, la violenza e la pressione sociale per conformarsi a norme di genere rigide e limitanti.
Il contesto culturale e sociale, come sempre, gioca un ruolo cruciale. A seconda del retroterra culturale, delle norme implicite, delle narrazioni dominanti e di tutto ciò che può essere definito come cultura di un gruppo o di una comunità, questo percorso di ricerca e affermazione e autodeterminazione della propria identità può risultare più o meno complicato e il tentativo di diventare se stessi può accompagnarsi a una serie di inevitabili effetti sulla salute mentale.
La faticosa ricerca dell’identità di genere rappresenta da un lato caratteristiche e problematiche specifiche che vanno inquadrate e prese in carico in modo competente; dall’altro e allo stesso tempo, alcuni correlati e vissuti psicologici di disagio e sofferenza legati al cercare di diventare se stessi, rappresentati da queste problematiche, evocano, in fondo, quanto sia complesso psicologicamente qualsiasi processo di individuazione, scoperta del proprio sé autentico e affermazione di ciò che si è, nel proprio contesto di appartenenza.
L’Evoluzione della Diagnosi nel DSM: un percorso verso una maggiore comprensione
L’evoluzione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) riflette i cambiamenti del modo in cui la comunità scientifica e medica ha definito, compreso e trattato le questioni relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale. Sin dalle prime versioni, il DSM ha subito significative revisioni che hanno influenzato profondamente il modo in cui vengono diagnosticati e percepiti i disturbi legati a queste tematiche.
Nella prima e nella seconda edizione del DSM, l’omosessualità era considerata un disturbo mentale. È solo con il DSM-III (pubblicato nel 1980) che l’omosessualità è stata rimossa come diagnosi, un cambiamento epocale che ha segnato una maggiore comprensione e accettazione dell’orientamento sessuale come una variazione naturale della sessualità umana piuttosto che come una patologia.
Per quanto riguarda l’identità di genere, il DSM-III ha introdotto la diagnosi di Disturbo dell’Identità di Genere, riconoscendo per la prima volta le persone transgender e le difficoltà che possono affrontare nel loro percorso. Tuttavia, questa diagnosi è stata spesso criticata per il suo approccio patologizzante, che poteva contribuire a stigmatizzare ulteriormente le persone transgender.
Con il DSM-5, pubblicato nel 2013, è avvenuto un altro importante cambiamento: il Disturbo dell’Identità di Genere è stato sostituito da Disforia di Genere. Questo termine pone l’accento sul disagio che una persona può provare a causa della discordanza tra il genere esperito e quello assegnato alla nascita, piuttosto che considerare l’identità di genere non conforme, come una patologia di per sé. Questo cambiamento ha rappresentato un passo avanti verso una maggiore umanizzazione e comprensione delle esperienze transgender, riducendo la stigmatizzazione e riconoscendo che non tutte le persone transgender sperimentano disforia.
Secondo il DSM-5, i criteri diagnostici per la disforia di genere variano a seconda dell’età della persona e sono suddivisi in criteri per bambini e per adolescenti e adulti:
Per diagnosticare la disforia di genere nei bambini, devono essere presenti almeno sei dei seguenti sintomi per una durata di almeno sei mesi, e il primo criterio è obbligatorio:
1. Desiderio forte e persistente di essere del genere opposto o insistente affermazione di appartenere al genere opposto (o un altro genere, diverso da quello assegnato).
2. Preferenze forti per indossare abiti tipici del genere opposto e resistenza ad indossare abiti tipici del proprio genere assegnato.
3. Preferenze marcate per ruoli di genere opposto nei giochi di fantasia o di ruolo.
4. Forte preferenza per giocattoli, giochi, o attività solitamente associate al genere opposto.
5. Forte preferenza per i compagni di gioco del genere opposto.
6. Rifiuto fermo di giochi, giocattoli, o attività tipicamente associate al proprio genere assegnato.
7. Forte avversione per l’anatomia sessuale propria.
8. Forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie che corrispondono al genere esperito.
Va specificato, come pubblicato su “Pediatria”–numero 10-11–ottobre-novembre 2021 – pag. 8, che “La DG si presenta in età evolutiva, ma non sempre ha un decorso continuo; ad esempio, può comparire intorno ai 2-3 anni quando cominciano ad emergere i cosiddetti indicatori della disforia, che però non possono rappresentare un criterio diagnostico, oppure possono manifestarsi nella fascia dai 3 ai 5 anni, per poi scomparire per alcuni anni e ricomparire in adolescenza. Proprio a causa di questa potenziale discontinuità della traiettoria è particolarmente difficile fare una diagnosi certa della DG in età evolutiva.”
Negli adolescenti e negli adulti, devono essere presenti almeno due dei seguenti criteri per una durata di almeno sei mesi:
1. Incongruenza marcata tra il genere esperito e le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie (o nei giovani adolescenti, le caratteristiche sessuali secondarie previste).
2. Forte desiderio di sbarazzarsi delle caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie a causa di un’incongruenza con il genere esperito (o nei giovani adolescenti, un desiderio di prevenire lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie previste).
3. Forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie del genere opposto
4. Forte desiderio di appartenere al genere opposto (o a un genere diverso da quello assegnato).
5. Forte desiderio di essere trattato come un individuo del genere opposto (o di un altro genere diverso da quello assegnato).
6. Forte convinzione di avere i sentimenti e le reazioni tipici del genere opposto (o di un genere diverso da quello assegnato).
In entrambi i casi, la condizione deve essere associata a un disagio clinicamente significativo o compromissione nel funzionamento sociale, scolastico, lavorativo o in altre aree importanti. È importante sottolineare che la diagnosi di disforia di genere non è intesa a patologizzare l’identità transgender, ma piuttosto a identificare il disagio significativo che può derivare dalla discrepanza tra il genere esperito e quello assegnato alla nascita, per fornire supporto e interventi appropriati.
L’evoluzione della diagnosi nel DSM riflette un percorso verso una visione più inclusiva e rispettosa delle diversità di genere e di orientamento sessuale. Questo cambiamento è essenziale non solo per una pratica clinica più empatica e informata, ma anche per promuovere una cultura sociale che riconosca la dignità e il valore di tutte le identità.
Più in generale, le persone che esplorano la propria identità di genere o orientamento sessuale possono affrontare una vasta gamma di problematiche psicologiche. E’ possibile sperimentare ansia e confusione mentre emergono i dubbi su chi si è realmente, spesso amplificati dalla paura del rifiuto o della non accettazione da parte degli altri. Questa incertezza può portare a sentimenti di isolamento e tristezza, soprattutto se la persona non trova un supporto adeguato nel suo ambiente sociale o familiare. In alcuni casi, questa sofferenza può evolversi in disturbi più gravi come la depressione o il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in risposta a esperienze di discriminazione, bullismo o violenza. Inoltre, il continuo confronto con norme sociali rigide e pregiudizi può portare allo sviluppo di una bassa autostima e di sentimenti di vergogna interiorizzata, aumentando ulteriormente il rischio di sviluppare pensieri intrusivi o comportamenti autolesionistici. Per queste ragioni, è essenziale creare ambienti di sostegno e accesso a una psicoterapia inclusiva, che possano aiutare le persone a comprendere e accettare la propria identità autentica, promuovendo il benessere mentale e una maggiore resilienza.
Il Ruolo della Psicoterapia
La psicoterapia può essere una importante opportunità per le persone che stanno esplorando la loro identità di genere o che stanno affrontando le sfide legate all’essere se stessi in una società che spesso non li comprende. La terapia può offrire uno spazio sicuro e non giudicante, dove i clienti possono esplorare la loro identità, elaborare esperienze di discriminazione o trauma, e sviluppare strategie per vivere una vita autentica e appagante.
Un aspetto fondamentale del lavoro terapeutico con persone LGBTQ+ è l’adozione di un approccio affermativo. Questo significa non solo accettare e sostenere l’identità del cliente, ma anche essere pronti e disponibili a tematizzare le narrazioni sociali che possono aver interiorizzato. A questo proposito, è possibile citare il punto di vista di Judith Butler, filosofa e teorica del genere che ha influenzato profondamente il pensiero contemporaneo sulla questione di genere e identità. Nel suo lavoro più famoso, “Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity” (1990), Butler introduce l’idea che il genere non sia un fatto biologico o naturale, ma piuttosto una costruzione sociale e performativa.
Secondo Butler, il genere è una serie di atti ripetuti, gesti e comportamenti che creano l’illusione di un’identità stabile. In altre parole, non si nasce con un genere definito, ma lo si “fa” attraverso pratiche sociali ripetitive che sono apprese e interiorizzate. Butler sostiene che queste performance di genere sono guidate da norme culturali e sociali, e che la ripetizione di questi atti stabilisce ciò che la società considera come “maschile” o “femminile”.
Un punto centrale del pensiero di Butler è che le categorie di genere sono intrinsecamente fluide e che non esistono identità di genere fisse o essenziali. Butler critica la rigida binarietà di genere (maschio/femmina) e il modo in cui essa impone limitazioni su come le persone possono esprimere la loro identità. Secondo Butler, la sfida è problematizzare queste norme di genere attraverso azioni che mettano in discussione le aspettative sociali, creando così nuove possibilità di espressione e di identità.
È importante che il terapeuta sia informato e sensibile alle specifiche problematiche legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale, e che sia pronto ad affrontare temi come il coming out, la transizione di genere e l’intersezionalità con altre identità.
Abbracciare la complessità delle identità di genere e delle esperienze LGBTQ+ significa abbracciare la varietà e la verità della condizione umana, riconoscendo che c’è bellezza nella diversità e forza nella vulnerabilità.
AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano
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