Essere e diventare: la sfida educativa

Cercare di diventare se stessi è, credo, il compito più difficile e nobile di una vita. Diventare se stessi significa rinascere a se stessi, ri-conoscersi, per quanto possibile, rintracciando dentro di sé ciò per cui siamo fatti.

Ma qui, sorge il primo problema; poiché non decidiamo dove nascere e le condizioni di partenza, diventare se stessi, in questa accezione, può risultare piuttosto complicato. Molte, infatti, possono essere le difficoltà che, agli albori di un’esistenza, durante i primi anni di vita, possono impattare sullo sviluppo di sé e gravare sulla naturale esplorazione delle proprie inclinazioni, portando il bambino a spostare la sua attenzione su altre occupazioni e preoccupazioni – tipicamente, rispetto al proprio caregiver, con tutte le possibili declinazioni: comunque vada, quando il bambino non è sostenuto in modo amorevole, autorevole da genitori sufficientemente risolti e soddisfatti, tende a inibire l’esplorazione di sé per occuparsi dei genitori, troppo ansiosi, insoddisfatti o addirittura cercando di difendersi perché trascuranti o violenti.

Ad ogni modo, se le cose, agli inizi, sono tendenzialmente buone, il bambino può dedicarsi all’impresa cui si sente portato, valorizzando in modo spontaneo ciò per cui è fatto, il proprio talento, imparando ad esprimere la propria voce.

Purtroppo, le cose non si fermano qui. Lo dirò in modo tranchant: talvolta – non è una regola, per fortuna – quel che una famiglia non supportiva ha cominciato, lo continua la scuola e lo porta a termine il mercato. Provo a spiegarmi.

La scuola e l’approccio educativo, negli anni, è cambiato, per fortuna. Il passaggio da una scuola autoritaria e impositiva a una scuola più in ascolto delle inclinazioni e più capace di ascolto e di relazioni è stato compiuto. Tuttavia, anche se in modo differente, la scuola sembra continuare a svolgere una funzione inconsapevolmente preparatoria a ciò che chiede il mercato – prestazionale –  e la cultura dominante ispirata sempre più a questo principio.

La prestazione però è cambiata. Un tempo questa consisteva nel contribuire un po’ passivamente a costruire una società di cittadini e contribuenti, fondata sul rigido e anonimo rispetto delle regole della democrazia, dei codici, dei confini. La scuola di allora, preparava e configurava esattamente questo genere di persona, attraverso metodi e dispositivi adeguati allo scopo.

Oggi la prestazione non consiste più nel diventare giudiziosi contribuenti ma anime libere, nel tentativo di diventare se stessi ad ogni costo –  sulla carta, nobile scopo. Le persone, però, per dedicarsi a questo scopo, tendenzialmente – almeno sui grandi numeri – faticano a mettersi in discussione, ad attraversare le proprie ombre. Proprio quando una domanda di sapere qualcosa su di sé si affaccia, vengono sedotte da un mercato che intercetta questa domanda di sapere, pronto a promettere, con gadgets, corsi, opportunità, intrattenimento, aperitivi, di diventare la versione più libera di sé stessi, la migliore di sempre. La domanda, quindi, sarebbe buona e porterebbe lontano – la più pericolosa di tutte: chi sono e di cosa ho bisogno; sono le risposte a confondere le acque.

Si è dunque liberi, sì, ma di consumare ciò che il mercato della felicità vende, le sue ricette – lungi dal capirci qualcosa di sé, in questo modo; l’introspezione autentica, come avvicinamento alla propria verità, è scoraggiata, troppo difficile e pericolosa.

Alla fine, la scuola – un vero paradosso – rischia di non puntare a creare persone consapevoli di sé – il mercato non se ne farebbe nulla, a niente contribuisce una persona consapevole se non allo sviluppo autentico di sé e della propria comunità; in breve, la scuola non incoraggia il bambino a essere se stesso ma a diventare felice (consumatore). Il bambino, cioè, è sostenuto nell’abbandonare la traiettoria di esplorazione di sé per abbracciare l’impresa di diventare qualcun altro – il futuro consumatore, appunto, sempre insoddisfatto e animato dal miraggio della felicità nel deserto in cui avanza faticosamente.

Abbiamo bisogno di ricominciare a farci la domanda e a rischiare qualche risposta diversa.

Le traiettorie educative dovrebbero riconoscere la posta in gioco e provare a invertire la rotta, con coraggio, facendo tesoro di quanto sperimentato di buono fino ad oggi ma assumendo su di sé una domanda politica: quali principi ispirano la pratica educativa? Quale tipo di persona sto aiutando a diventare, il bambino che ho di fronte? Che società sto contribuendo a formare? Sto facendo gli interessi del bambino?

Gli educatori di oggi – tutti, da chi lo fa per professione a chi per vocazione, dai genitori agli specialisti fino alle persone comuni – devono porsi domande complesse e importanti, scomode. Se nessuno oserà scomodarsi – e scomodare – la giostra non farà altro che continuare a girare nella stessa direzione.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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