In un tempo relativamente breve, lo scenario sociale entro cui si muove la famiglia – considerando il nostro occidente post-industriale – è profondamente cambiato. Sappiamo, oggi, grazie agli sguardi e le ricerche della Psicologia e della Sociologia, che la funzione paterna e la funzione materna, esercitati fino a non molto tempo fa, entro le nostre coordinate culturali, in modo compartimentato e, spesso, inflessibile, hanno attraversato una ridefinizione che ha consentito ai padri e alle madri di rimescolare le carte e i ruoli, autorizzando gli uni ad accedere ad una comunicazione più affettiva ed emotiva coi figli e consentendo alle altre di dedicare più tempo ed energia alla coltivazione di obiettivi e traiettorie che non fossero quelle classicamente e patriarcalmente attribuite alle donne.
La famiglia, inoltre, ad oggi non sembra più essere depositaria del mandato sociale alla creazione del futuro cittadino ma, con l’erosione della solidarietà comunitaria e la contrazione della fiducia nel cosiddetto prossimo, si è giunti a una riduzione della comunità in micro nuclei famigliari, spesso isolati e non solidali tra loro, e l’obiettivo educativo dei genitori sembra essere diventato, anzitutto, “creare” figli felici – talvolta ad ogni costo –, capaci di affermarsi nella vita.
Ovviamente, l’obiettivo della felicità rappresenta il lusso di una società che parrebbe aver risolto alcuni dei suoi bisogni di base (ma è così?…), potendo quindi consentirsi di dedicare le proprie energie alla soddisfazione personale e all’autorealizzazione.
Porsi l’obiettivo di essere felici e di crescere figli felici mi sembra, ovviamente, un sacrosanto diritto.
Tuttavia, come sempre, la questione è più complessa.
Se infatti la felicità e l’affermazione della propria traiettoria di vita diventano l’indicazione e la motivazione fondante ed esclusiva a guida dei propri passi, il rischio è quello di non concepire più le comunità e i contesti di appartenenza – e le regole e limiti che li strutturano – come le condizioni che consentono l’espressione di sé ma solo come dei lacci che ne impediscono l’irrinunciabile espansione. Le regole, ovviamente, si possono contestare e rinegoziare, ma sono base imprescindibile perché vi siano legami ed esistenza.
Molto spesso, assistiamo a comportamenti dirompenti dei ragazzi, all’espressione disregolata delle emozioni, alla esplosiva reattività di alcune condotte. Altrettanto spesso, dietro alcuni di questi, si nasconde una disperata e maldestra richiesta di confini, indicazioni, presenze autorevoli – non autoritarie – e adulte.
Credo, non in opposizione alla ricerca della felicità ma proprio per renderla autenticamente possibile e reale, che ad affiancare questo obiettivo educativo – sostenere i figli ad autorizzarsi e coltivare i propri talenti, ad allinearsi a ciò che veramente conta per loro – si debba porre, necessariamente, un ulteriore obiettivo: portare le nuove generazioni ad accogliere il fatto che l’affermazione di sé è veramente possibile solo entro una struttura e un contesto sociale e grazie a dei princìpi che ne regolano il funzionamento.
E’ una grande occasione. Siamo in una fase storica difficile ma di grandi prospettive: abbiamo i mezzi e le risorse – se correttamente impiegati – per vivere una vita significativa; abbiamo liberato la persona, quantomeno in riferimento agli eventi storici degli ultimi 60 anni alle nostre latitudini, dalla cappa del conformismo, aprendo alla possibilità di ciascuno di essere se stesso.
Per portare a compimento e mettere nella giusta prospettiva l’opera educativa, il tassello necessario e mancante – che richiede fede e pazienza, esempi e coraggio degli adulti – mi sembra possa essere consentire ai ragazzi di imparare a gestire questa libertà in accordo ai necessari limiti dell’umano e dell’esistenza in quanto tale, impedendo che il personale diritto alla felicità veda nell’annientamento dell’altro e delle regole le condizioni necessarie alla sua affermazione.