Chiunque, in qualche momento della vita, che spesso giunge inaspettato nella sua travolgente intensità, si è chiesto: che ci faccio qui, che senso ha la mia vita.
A volte arriva come un inciampo, altre volte sembra un rumore di fondo che accompagna giorni, mesi, a volte anni. Ma, a questa domanda ci si arriva, ci si va a sbattere. Come per ogni impatto, anche il contatto con la superficie irriducibile di questa domanda fa male. Ma ci è richiesto, se vogliamo guardare alla storia della nostra vita con la sensazione di aver realizzato, almeno in parte, ciò per cui eravamo segretamente destinati, di non eludere questa domanda. Di non deluderla. E’ una domanda che contiene in sé la migliore delle traiettorie, quantomeno la più significativa per noi, quella che ci porta lontano in una direzione gradita che poi rappresenta, allo stesso tempo, un ritorno a noi; il punto più lontano dai condizionamenti e dalle paure è il più vicino alla verità e al coraggio, a ciò che siamo da sempre.
Certo, come detto, possiamo voltarci altrove, distogliere lo sguardo, cambiare marciapiede per non incontrare quegli occhi carichi di energia, rabbia o tristezza, il desiderio che si fa vivo, in uno specchio, in quell’altrove da cui parla, sommessamente e irriducibilmente, ogni volta che ci sentiamo persi.
Basterebbe affidarsi, fidarsi. Il che non esula da una certo ammontare di dolore, da une certa quota di sofferenza. Ma si tratta della sofferenza di lasciare indietro ciò che non c’entra più con noi, ciò per cui eravamo “costruiti”; ed è il dolore del tradimento di chi ha riposto aspettative in noi, in buona fede spesso, e attende, fiducioso, la congrua risposta. E, invece, quella risposta, se teniamo fede a noi stessi, non giunge. Non così. Gratitudine, questa sì, per essere giunti dove siamo. Ma da un certo punto in poi, dobbiamo diventare bussola, nave e mare allo stesso tempo.
E approderemo dove ci siamo sempre sentiti a casa; diventare se stessi è sempre tornare a casa.
Certo, la tentazione di lasciar perdere l’impresa è sempre in agguato. Ma lasciando perdere non rinunciamo solo a quella fatica ma anche a quel tipo speciale e irripetibile di gioia e appagamento che solo nasce dal sentire che siamo allineati a ciò che sentiamo importante per noi, ciò di cui abbiamo veramente bisogno.
L’essere umano cerca un senso, in tutto ciò che fa. Potremmo, semplificando non poco, affermare che una buona dose di fatica e sofferenza, magari silenziose, derivino proprio dal prendere distanza dal senso, dal dedicarci a cose, attività, persone, per giorni e vite intere, senza che per noi abbiano un senso, senza porci questa domanda di senso, senza rispettare questo sacro mandato dell’esistenza. Ripetiamo gesti e parole, senza via di scampo. Ma l’orizzonte che scantoniamo e fuggiamo è la parte migliore di noi, la parte più appagante della nostra esistenza. I greci avevano una parola per dire felicità, eudaimonìa: significa che la gioia sta nel rispondere alla propria chiamata, nel dare attenzione e cura alle proprie vocazioni, nel tentare di realizzare i propri talenti.
Cosa sarebbe, si chiede André Stern, figlio del pedagogista Arno Stern, se non interrompessimo il gioco del bambino per quarant’anni? Se lasciassimo a ciascun bambino, futuro adulto, di poter esplorare e coltivare le proprie naturali propensioni, creatività spontaneità? Che adulti avremmo, creando e proteggendo le condizioni migliori possibili perché il bambino sia in grado di sentire per cosa è fatto e fosse autorizzato a farlo? La risposta è complessa ma immagino, quantomeno, che avremmo una società migliore, più gentile e soddisfatta.
La fatica depressiva che si cela in tanta iperattività contemporanea, alle nostre latitudini, parla chiaro: vedo, nella mia pratica quotidiana coi pazienti, persone che non riescono più a fingere, a stare al ritmo imposto e si domandano: dove mi sono perso? Che cosa amavo ed ero bravo a fare? Dove posso finalmente sentirmi a casa? E, come spesso accade, quando siamo dentro una crisi siamo anche davanti a una opportunità.
Diventare sé stessi richiede fiducia, coraggio, forse fede; è la cosa più difficile che si possa scegliere di fare, quella che fa più paura.
Ma anche la più entusiasmante e significativa.
Del resto, lo sappiamo, al fondo di noi; la sentiamo sempre chiaramente la domanda quando, tenendo gli occhi al soffitto in una notte senza sonno, una voce ci sussurra: che ne è della vita che volevi vivere?
La buona notizia è che non sei sola, non sei solo. E, forse, questo è il compito più importante della tua vita. Esiste la disciplina per molte cose, che poi si tratta semplicemente di un metodo per imparare ad imparare. Esistono strumenti, pratiche, percorsi, compresa la psicoterapia.
Che ne dici? Ti va di provarci? Intendo dire, di provarci sul serio, questa volta?
AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano
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