Anche se con le dovute e visibili differenze temperamentali, influenzate dal corredo genetico e dalle primissime “interazioni” col proprio “ambiente” uterino, ogni bambina e ogni bambino sono accomunati da alcuni tratti e disposizioni, dalla nascita, come la vitalità, la curiosità, l’attitudine ad esprimersi e cercare l’altro, l’agire in sintonia coi propri bisogni, la ricerca del piacere e l’evitamento di ciò che è spiacevole. Tra i primi e fondamentali bisogni del bambino c’è il bisogno di sicurezza – un ambiente relazionale stabile, responsivo, capace di dare un significato alle emozioni, di sintonizzarsi con le emozioni del bambino e di riparare alle rotture di tale sintonizzazione, nonché di provvedere ai suoi bisogni fisiologici con amorevolezza e attenzione.
Se il bambino vive interazioni che possiedono queste qualità, si sentirà sufficientemente al sicuro per proseguire con curiosità e creatività nell’esplorazione di sé, lungo una traiettoria che, ovviamente non priva di difficoltà, lo porterà a costruire una immagine di sé competente e di valore e dell’altro come disponibile e attento. Detto in altri termini, ciò che accade sul piano delle interazioni tra caregiver e bambino, da dialogo esterno diventa, progressivamente, un dialogo interno tra una parte genitoriale e una parte di bambino. Quanto più, quindi, l’adulto è stato capace di sostenere la gioia, l’entusiasmo, la creatività, la sicurezza del bambino, quanto più il bambino farà sue la capacità di sostenersi e consolarsi da solo, di avere fiducia in sé e nel mondo, di esprimersi con spontaneità ed energia – va detto, a scanso di equivoci, che non stiamo parlando di una genitorialità perfetta, esente da “errori” ma di uno stile relazionale sufficientemente buono, convalidante e responsivo.
Nel momento in cui, al contrario, il bambino – fin dai primi giorni di vita – fa esperienza di un ambiente relazionale disturbato e disfunzionale – con un caregiver, tra le altre, svalutante e critico, evitante e anaffettivo, trascurante e abbandonico, aggressivo e violento (in sofferenza a sua volta per problematiche differenti e, specifico qui, la natura e gravità di tali comportamenti disturbati rappresentano le variabili principali), se queste esperienze di accudimento disfunzionale perdurano nel tempo, deve “prendere” delle decisioni di sopravvivenza, rinunciando ad esprimere quelle parti e vissuti personali che innescano, nel caregiver, risposte disturbate e disturbanti – in termini etologici, infatti, mantenere il legame di attaccamento con le figure di accudimento è l’obiettivo principale del cucciolo d’uomo, dotato di una predisposizione biologica a selezionare e adottare comportamenti che garantiscano la propria sopravvivenza, legata indissolubilmente al mantenimento del legame col proprio caregiver nei primi di anni di vita, per propria costitutiva immaturità e dipendenza.
Il bambino, in questi casi, può rinunciare a parti di sé, assumere una immagine di sé disfunzionale, poco attento ai propri bisogni, in un costante assetto di difesa, più preoccupato a irrigidire e presidiare i propri confini che impegnato a realizzare se stesso – sul piano comportamentale, la sofferenza si può esprimere in molti modi, con tratti ansioso-depressivi, fobici, ossessivi, disturbi alimentari, condotte oppositive.
Da grande, potrà avere la tendenza a fare riferimento al solito e rigido set di difese – non modulabili e non legate ai contesti e alle differenti persone con cui entra in contatto -, con grande sofferenza personale.
La Psicoterapia – diciamo meglio, la relazione psicoterapeutica – si pone l’obiettivo di “lavorare” anche e soprattutto per ricostruire una nuova fiducia in sé e negli altri, per rinunciare alle difese disfunzionali o modularle in modo appropriato e riconnettersi coi propri bisogni sopiti, diventando, il paziente stesso, l’adulto di cui avrebbe avuto bisogno quando è stato bambino.