“Quando sono debole, è allora che sono forte”

Molte potrebbero essere le interpretazioni e i significati attribuibili a questo versetto di San Paolo (2Cor.12,10). Mi interessa qui sottolinearne alcuni aspetti.

Leggendolo risulta chiara la paradossalità dell’affermazione – è proprio il paradosso, come sanno alcune tradizioni di saggezza, a fare cortocircuitare la logica ordinaria, per consentire, a chi accoglie la sfida, di interrogarsi in modo più complesso su alcune questioni.

Cosa può quindi significare che sia proprio lo stato di vulnerabilità e debolezza a costituirsi come momento in cui si manifesta la forza?

La forza come segno di incrollabilità non rappresenta che una banalizzazione e, forse, anche una deformazione del concetto di forza. Quest’idea muscolare di forza, infatti, è profondamente diversa dalla resistenza del ramo che sa piegarsi, travolto dalle intemperie, senza rompersi, ma sembra suggerire sempre l’immagine della durezza così come della irreprensibilità e imperturbabilità, dell’onnipotenza direi, che tipicamente va incontro al suo spezzarsi, proprio a causa della sua rigidità.

La forza, dunque, – o almeno quella forma di forza che qui ci interessa coltivare –  non starebbe nell’indisponibilità a piegarsi e non starebbe nel distacco imperturbabile e nell’assenza di penombre.

Ben altro genere di forza nasce proprio quando siamo costretti in uno stato di debolezza ad accettare questa nostra costitutiva condizione, di imperfezione, di mancanza e di complessità irrisolta; proprio quando accettiamo tutto questo, cioè accettiamo di non essere infiniti ma finiti, è proprio allora che, non avendo più timore della propria finitudine, noi cominciamo a pensare e ad agire a partire da essa ed entriamo nella vita con un passo diverso.  

E’ solo nel momento in cui accetto intimamente la morte come fatto della (mia) vita che posso rendere viva la mia esistenza, perché sento e agisco senza tenermi al riparo dalla morte poiché la morte è già data; solo allora, se non temo il fallimento, potrò andare incontro alle mie imprese con tutto me stesso.

Non è più, dunque, una vita che si consuma nel disperato tentativo di proteggersi dall’inevitabile ma è una vita che spalanca le braccia per accoglierlo e, così, si avvia a realizzare il proprio potenziale, perché rende marginale un dato che prima era centrale e di ostacolo.

La vita, per essere tale, richiede questo genere di forza che sorge solo accettando la nostra costitutiva debolezza. Come ci ricorda Michel Serres, il principio di Archimede può ben spiegare e rappresentare questo meccanismo virtuoso, assimilabile alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, miracolosa e ben nota: se ci immergeremo nella vita con lo slancio di chi si arrischia per diventare se stesso e rendere la propria vita significativa e sensata ai propri occhi, riceveremo una spinta a realizzare questa impresa equiparabile e superiore all’impegno profuso. Le pagine evangeliche ci dicono chiaramente che il tentativo di conservare la propria vita porterà a perderla cioè a mancare il bersaglio – vero significato della parola greca hamartìa, che traduciamo ‘peccato’. Ancora una volta l’invito è a non conservare i propri talenti ma ad avere la forza e il coraggio di farne buon uso.

Dunque, è proprio quando accettiamo la nostra debolezza che siamo pronti per costruire a partire da essa lo slancio necessario per immergerci nelle cose della vita. Allontanando da sé l’unico vero peccato originale, cioè quello di non aver ascoltato e realizzato ciò cui eravamo destinati.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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