Il valore e senso del limite

Un tratto fondamentale del nostro Occidente e di ciò che l’Occidente sta cercando di promuovere ed esportare, da tempo e con un certo successo, è ispirato da un atteggiamento in particolare: la svalutazione e negazione del limite. Anticipo qui che la tesi che cercherò di sostenere afferma la necessità di riformulare e di reintegrare nelle nostre vite il valore del limite come elemento generativo di libertà e non come ostacolo di libertà.

L’essere umano, dotato di consapevolezza di sé e animato dal desiderio di dare un senso a ciò che fa, da sempre percepisce l’esistenza del limite. Questa percezione è stata spesso una fondamentale spinta ad andare oltre la nostra zona di comfort, oltre le nostre colonne d’ercole, per quella pulsione a esplorare e comprendere che è tipica dell’uomo. Abbiamo sempre avuto un rapporto generativo, per così dire, con il limite, nel senso che ogni limite ci ha sempre invitati ad essere discusso e, talvolta, superato. Ma il valore del limite sta solo nell’invito a essere oltrepassato? Evolversi, diventare se stessi, significa esclusivamente abbattere limiti?

Credo che sia un tema di fondamentale importanza nel tempo che viviamo: il desiderio di abbattere barriere, confini e rigide identità è esercitato costantemente e legittimamente, aggiungo, ma questa pulsione a oltrepassare limiti credo vada gestita con più responsabilità e consapevolezza. L’esito di questa tendenza allo sconfinamento costante, che spesso vedo tradursi in forti angosce nei pazienti, sembra un portato di lungo corso di quell’ondata postmodernista che tanto ha contribuito a decostruire e travolgere alcune gabbie ma che ha anche finito per consegnarci esausti a un relativismo assoluto, nel quale ci sentiamo sprofondare, a fare i conti con una libertà senza confini e carica di angosce perché priva di riferimenti.

Credo quindi che, in ambito politico come in ambito terapeutico o educativo, la questione dei contenitori e del limite si ponga e si imponga come un tema di scottante attualità e sia importante elaborare un pensiero complesso sul valore, la necessità, la modulazione e gestione dei contenitori, dei limiti e dei confini.

La domanda, credo, da cui occorre ripartire: qual è il senso del limite e quale ruolo svolge, quale valore possiede?

Possiamo intendere il limite in tanti modi: regole, ordini costituiti, codici di comportamento, come ciò che tiene separati il dentro dal fuori, che distingue il giusto dallo sbagliato, il sacro dal profano, ciò che si può conoscere dall’inconoscibile. Gli esempi non mancano.

Un certo grado di struttura e di ordine è necessario alla vita al suo svolgersi e articolarsi. Ovviamente, le strutture e gli ordini sono modificabili e aggiornabili – devono esserlo – ma rappresentano pur sempre ciò che consente alla discussione e alla contestazione di esistere, il terreno sul quale si negozia e si contrattano nuove forme di ordine e struttura. Tenerne conto significa assumere la copresenza necessaria dell’ordine e del caos come due elementi entrambi necessari allo sviluppo perché la giustapposizione tra questi è generativa.

Viviamo, invece, in un’epoca in cui vogliamo fare a meno del negativo, inteso come limite, del dolore, delle ombre, del caos. È un’epoca in cui siamo ossessionati dalla produzione di noi stessi – diventata la prestazione principale – e dall’affermazione di noi stessi, senza pensare che non è possibile affermare se stessi se non all’interno di una cornice che ci include – ci limita e fornisce uno spazio.

Causa e, allo stesso tempo, effetto di questa mentalità è rappresentata da quel processo di desacralizzazione di ciò che è sconosciuto, nella convinzione che non esistano misteri insondabili o limiti non oltrepassabili, ma tutto – dopo la morte di Dio – sia governabile e addomesticabile attraverso il denaro, il pensiero razionale e la tecnica. La Pòlis greca ci ricorda, tuttavia, che una comunità complessa e funzionante si articola nel rapporto tra tre spazi, tre funzioni, tre forze: l’òikos, lo spazio privato della casa e dell’intimità, l’agorà del dialogo pubblico e del commercio e quella del tèmenos, lo spazio riservato al sacro, appunto.

Come spesso succede, la lingua ci viene in aiuto. La parola ‘soggetto’ ha il doppio significato dell’essere soggetto di un’azione ma anche soggetto a un’azione. Anzi, in origine il latino subiectum rappresenta la traduzione del termine greco ύποκείμενον, che si riferisce a tutto ciò che “soggiace”. Ed è questo il punto.

Lo statuto di soggetto non si costruisce soltanto attraverso un agire finalizzato a cambiare le cose ma anche attraverso l’accettazione di ciò che non può essere cambiato. Il soggetto non è solo colui che imprime un segno ma è anche qualcuno su cui è impresso un segno ed è questo statuto mediano, che si muove esattamente tra questi due ordini di cose e di significato, a costituire ciò che gli antichi definivano virtù.

In effetti, se siamo completamente onesti con noi stessi, scopriremo che la nostra soggettività si costituisce esattamente nel campo in cui si giustappongono, dialogano e confliggono queste due forze. Ed è questa la verità che fa più male ma è anche la più solida su cui costruire traiettorie: possiamo alcune cose ma non possiamo tutto.

I percorsi di terapia, così come le occasioni di crescita personale, dovrebbero forse avere più a cuore e mettere più a fuoco l’obiettivo di creare le condizioni perché la persona si accosti alla sua propria verità, ad un percorso di verità su di sé, che lungi dal voler intrattenere o costituirsi come momento di riposo tra una prestazione professionale e una prestazione familiare ma al contrario che ci metta di fronte sempre più spesso alle nostre ombre.

Continuare a vivere nell’illusione del dominio e del controllo è molto rischioso e ci siamo finiti dentro con tutte e due le scarpe, perché oggi viviamo l’illusione della governabilità assoluta, fomentata dall’ideologia del denaro che tutto compra e della tecnologia che tutto addomestica e trasforma. Ci andremo a sbattere. Lo facciamo già.

Una massima dei Padri del Talmud recita: “Non ti è imposto di completare l’opera ma non sei libero di sottrartene”.

Forse potremmo, una volta di più, guardare anche a ciò che è stato, alle antiche tradizioni di saggezza, per recuperare e rinnovare alcune visioni di cosa significhi stare in equilibrio sul filo della vita.

AlessandroCiardi
Psicologo, Psicoterapeuta Milano

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